Parlare con Cristina Comencini significa entrare in mondi diversi e affascinanti. Cinema, televisione, teatro, letteratura la raccontano come regista, sceneggiatrice, scrittrice raffinata e di successo. Erede di un’arte antica e preziosa, quella del padre Luigi, il regista che ha regalato al cinema italiano capolavori indimenticabili, da Pane, amore e fantasia ai film della Commedia all’Italiana, Cristina racconta l’Italia e i suoi cambiamenti attraverso i personaggi, soprattutto femminili, della sua produzione artistica ma anche con un impegno civile che tende alla costruzione di una società in cui uomini e donne siano finalmente pari ma non uguali, nel rispetto di differenze capaci di testimoniare una storia e costruire un futuro. In questo tempo di lockdown, la casa è il suo quartier generale, il luogo dove intesse e cura relazioni umane che considera fondamentali, scrive sceneggiature, affida l’ultimo film “Tornare” a un non previsto viaggio in streaming, anch’esso vittima del blocco che coinvolge il settore culturale e che la preoccupa non poco, per il futuro incerto dei teatri e delle sale cinematografiche.
Ma Cristina Comencini pensa anche e soprattutto alle modalità di una ricostruzione necessaria dopo lo shock pandemico e rivolge un appello ai governanti europei per esigere la costruzione di una nuova Europa, più unita e solidale che riparta dalle competenze, le qualità e i talenti delle donne. Cristina Comencini racconta l’Italia, desidera un’Europa diversa e sogna l’America, con la quale spesso le sue storie e i suoi personaggi si intrecciano.
All’Osservatorio Roma e America Oggi spiega il progetto su cui si fonda l’appello rivolto ai governanti europei, un nuovo umanesimo tra Paesi che deve essere al centro di una nuova economia.
In questo tempo di lockdown siamo tutti a casa, uomini e donne ma lo siamo allo stesso modo?
No, prima di tutto perché siamo diversi, uomini e donne, pari ma non uguali. Le donne da sempre hanno fatto un doppio lavoro, dentro e fuori casa. Alla casa, uno spazio che vivono di più rispetto agli uomini, hanno sempre tenuto molto, educando e crescendo i bambini, curando le persone anziane. Oggi per gli uomini, abituati a consegnarsi quasi totalmente al lavoro, vivere lo spazio e la dimensione casa è una sorpresa e un cambiamento totale. Spero sia l’inizio di una nuova collaborazione.
Nelle case oggi ci sono sia le donne abituate a esserci per scelta o per necessità sia quelle che ci sono tornate con lo smart working. Quali sono le differenze tra i due profili di donne e quali i possibili momenti di dialogo?
Tutte le donne, salvo poche eccezioni, hanno sempre fatto un doppio lavoro. Ci sono ancora donne che sono solo in casa, per scelta o perché costrette, ma in generale questa è l’epoca in cui le donne lavorano fuori e dentro casa. Non vedo una grande differenza anche perchè le donne si capiscono, tutte possono comunicarsi la realtà di una vita che è fatta in parte di lavoro, in concorrenza con gli uomini, dentro un mondo di uomini che è diventato anche il loro e in parte è una vita in cui le relazioni, gli affetti, la cura, le necessità legate alle esigenze quotidiane come il mangiare, sono prerogative delle donne spesso non condivise dagli uomini.
Nel tempo che stiamo vivendo l’evidente centralità della casa è anche sintomatica della centralità della donna nella società?
Le donne hanno cominciato due secoli fa un lungo percorso che le ha fatte uscire dalle case e le ha fatte entrare nella società. Questa epidemia ci ha fatto capire che di colpo il privato è oggi diventato pubblico, le case sono il luogo dove riusciamo o non riusciamo a reggere alla pandemia, con i valori di solidarietà, partecipazione, affettività, anche di angoscia che in esse si evidenziano. Tutte le relazioni umane sono oggi al centro della nostra vita e sono la nostra forza. Abbiamo capito che quello che fanno le donne, occupandosi del privato, non è una cosa di cui lo Stato non si deve far carico, non è qualcosa di gratuito ma è la base della coesione della società. Quando ci sono questi valori, le società sono forti. Dobbiamo uscire dall’epidemia con il concetto che il privato, di cui le donne si sono sempre occupate oltre il loro lavoro, è diventato materia di tutti, importante per tutti.
L’Appello ai governanti europei affinchè la nuova Europa consideri il contributo della donna al centro della rinascita europea, di cui è promotrice con l’Associazione “Se non ora quando?-Libere”, sottoscritto da molte donne europee di formazione politica e culturale trasversale, quali obiettivi si propone?
“Se non ora quando?” è un movimento nato nel 2011 culminato in una manifestazione che ha chiamato in piazza un milione di persone, senza partiti e colore politico, contro la rappresentazione che davano i media delle donne italiane. Si è poi diviso in varie articolazioni, tra cui “Se non ora quando?-Libere”, il gruppo a cui appartengo che si è occupato in questi anni di molti aspetti che riguardano le donne, soprattutto della legge contro ogni forma di violenza. In questo momento è a noi sembrato fondamentale che l’Europa, che è una comunità, che ha un parlamento, un consiglio, è un grande governo tra i governi, dovesse cominciare a rinascere, dopo la pandemia, su un piano di reale e profonda solidarietà tra i Paesi. La pandemia ha posto al centro una relazione di nuovo umanesimo tra i Paesi che forse è quello che mancava in un rapporto che ha sempre parlato di economia, spread, debito pubblico. Le donne oggi possono affermare la loro presenza, in un momento di necessaria ricostruzione, contrariamente ad altri periodi storici, come nel dopoguerra, quando non avevano in Italia neanche il diritto di voto. Oggi ci siamo, lavoriamo, ci facciamo carico di tante cose perciò esigiamo dai governanti europei un progetto comune di ricostruzione che passa dai valori e dai rapporti che sono la base e anche la forza della nostra società.
Quali pensate siano state finora le opportunità mancate, le aspirazioni stroncate, i diritti non soddisfatti in pieno per le donne da questa Europa?
La questione che riguarda l’accesso delle donne nella società riguarda tutti i Paesi del mondo. La conquista della emancipazione attraverso il lavoro, non ancora ultimata, è stata fondamentale. La nostra storia non è fatta solo di lavoro remunerato, ma anche di tutta una serie di costruzioni di cui la famiglia è il centro che fanno parte della nostra storia e che non vogliamo perdere. Non vogliamo omologarci agli uomini, perché siamo diverse, ma vogliamo essere a pieno titolo in una società che però deve cambiare, per diventare a misura di donne che lavorano. Noi vogliamo che la società, finora totalmente costruita dagli uomini, sia oggi per uomini e donne. E’ una società che deve ripensarsi, dove il lavoro di cura e di relazione, degli anziani e dei bambini, deve essere alla base e a cui lo Stato deve dare grande importanza, economica e di pensiero.
In che modo si può pensare di rappresentare un sentiment comune a tutte le donne?
Il movimento delle donne ha capito che solo se ci si metteva insieme si riusciva a cambiare la società e a entrarci dentro. Le donne divise sono fragili, ma il senso di una identità comune le ha aiutate a sostenere battaglie insieme, trasversalmente. Le donne sono il 50% dell’umanità e devono avere una società che le corrisponde. Ciascuno, con il proprio lavoro, deve impegnarsi per favorire questo cambiamento. Io sono una regista, scrivo libri e costruire personaggi femminili è un modo per aiutare le donne e far avanzare un nuovo mondo che possiamo costruire insieme agli uomini.
Come si può ripartire dai nostri limiti?
È il concetto più importante che la pandemia ci lascia. Abbiamo capito che il mondo in cui viviamo non è completamente nostro perché noi abbiamo doveri di sostenibilità nei confronti del pianeta, della natura, degli animali, dei diritti dell’altro, a partire dal riconoscimento della sua libertà. Il pianeta, con cui siamo un corpo unico, legato dalle relazioni e anche dalle malattie, si è ammalato tutto insieme, come Bill Gates aveva previsto. E’ il nostro limite ma dal quale però ripartire perché il rispetto degli altri, il rispetto della natura è la grande forza da cui si può ricostruire.
È ipotizzabile un nuovo Umanesimo, una nuova attenzione alla persona e ai suoi bisogni?
Possiamo ripartire con un programma in cui sia più presente il rispetto del pianeta e della relazione con l’altro. La ricostruzione potrebbe iniziare con una grande opera di edilizia scolastica per asili nido pubblici, in Italia quasi assenti, per sviluppare la modernità e consentire a tutte le donne, anche al Sud di lavorare ma al contempo permetterebbe di far nascere più bambini. Il rapporto umano deve essere al centro della nuova economia.
La situazione che siamo vivendo sembra un film. Quali sono le scene che rimarranno?
La riduzione dei luoghi sociali collettivi in cui stare insieme, per ascoltare musica o assistere ad una rappresentazione teatrale o vedere un film. Noi registi e sceneggiatori dovremo cominciare a scrivere di questo per rappresentare e descrivere un mondo in cui è bellissimo uscire per vedere un film insieme, per ridere tutti insieme, per riportare al centro una vita sociale importantissima che in questa fase si sta eccessivamente virtualizzando e quindi impoverendo.
Tornare alla normalità è il desiderio di tutti. Ma “Tornare” è anche il titolo del suo film di prossima uscita, un titolo dal vago sapore profetico?
“Tornare” è un film girato a Napoli che racconta una storia che per certi versi può anche toccare il tempo che viviamo. Parla di una donna, figlia di un militare americano, che torna a Napoli alla morte del padre e rivive, nella sua splendida casa sul mare, un ritorno, ricostruendo il puzzle della sua vita attraverso l’abitare una casa che riscopre nel momento in cui deve svuotarla per venderla. Ricorda la dimensione in cui oggi tutti stiamo vivendo, mentre trascorriamo molto tempo in una casa che guardiamo con occhi diversi e quasi riscopriamo. Giovanna Mezzogiorno e Vincenzo Amato sono i due protagonisti e il film, che doveva essere nelle sale dal 12 marzo, chiuse per il lockdown, è disponibile in streaming su diverse piattaforme.
Anche per la platea degli Italiani all’estero?
Si, certamente anche perchè le comunità italiane che vivono lontane dall’Italia sono molto legate alla canzone, all’opera ma soprattutto al grande cinema italiano che ci ha ricostruito, a partire dal dopoguerra, anche attraverso le immagini dei film e che continua a raccontarci con passione.
Il lockdown ci sta facendo vivere una nuova forma di socialità. E’ una scoperta o un surrogato?
La relazione con l’altro non si può risolvere attraverso Skype, che è un surrogato perché manca la corporeità, il contatto diretto con le persone. E’ anche una scoperta però, perché nei primi giorni di lockdown si è assistito a una esigenza di incontro virtuale tra persone che non si frequentavano da tempo. È una nuova socialità che ha aspetti ambivalenti.
Sex Story, il docufilm realizzato con materiale delle TECHE RAI sul cambiamento del ruolo della donna per come la televisione pubblica lo ha registrato fino agli anni ’80, che Italia racconta?
Con Roberto Moroni, su sollecitazione di Maria Pia Ammirati, direttore di RAI TECHE, abbiamo documentato il cambiamento di come è stata rappresentata la sessualità in televisione e raccontando questo, montando il materiale, abbiamo raccontato l’enorme cambiamento del ruolo della donna nella società italiana. E’ un docufilm anche divertente, che ripropone Mario Riva con la sua assistente muta, Delia Scala che diceva di poter mostrare solo il collo, Sabina Ciuffini la prima valletta in minigonna, le gemelle Kessler che fanno vedere le gambe. In questo documentario non c’è solo il ruolo della donna che si trasforma, ma c’è un po’ l’Italia e i suoi cambiamenti.
Il docufilm è impietoso al punto giusto, nel senso che restituisce l’immagine di un paese nei suoi evidenti contrasti culturali tra Nord e Sud ma anche di una televisione che ha cavalcato l’immagine della donna oggetto?
E’ cambiata una civiltà. Le donne non erano entrate come pensiero, azione, lavoro nella società, gestita interamente dagli uomini, nella cultura e nel lavoro. Raccontiamo aspetti che oggi sembrano incredibili ma che allora erano la normalità. Sentir parlare in televisione di delitto d’onore o della disperazione di un ragazzo che teme di sposare una ragazza non vergine, può risultare sconvolgente ma documenta quella che era allora la realtà.
Il voyerismo verso le ragazze della pubblicità fotografica o le ragazze di carta attaccate sui vetri dei camionisti, oggi c’è ancora e soprattutto la donna ne è oggetto allo stesso modo?
Le cose stanno cambiando, anche se i cambiamenti profondi hanno bisogno di un tempo necessario. La donna è ancora tra l’antico e il nuovo. Le leggi invece sono cambiate in maniera decisa, la legge contro la violenza alle donne e contro il femminicidio lo testimonia chiaramente. Certamente, qualche calendario con le donne in giro ancora c’è, ma siamo sulla via giusta.
Il vostro appello sollecita l’Europa a ripartire dalle donne, ma l’Italia a che punto è nel riconoscere alle donne ruoli decisivi e strategici?
Tutti gli specialisti chiamati a traghettare l’Italia fuori dall’incubo Covid/19 sono uomini che si nominano tra loro e si autosostengono. Nella lista degli specialisti consulenti per la ricostruzione non ci sono donne, eppure le prime tre persone che hanno isolato il virus sono tre donne italiane, Ilaria Capua è una delle virologhe più autorevoli a livello mondiale, unitamente a molti altri profili di eccellenza in altri campi. Bisogna vigilare che le donne siano negli organismi decisionali per mettere in campo il loro modo di lavorare. L’appello auspica che in sede europea venga presa una linea comune, in un progetto di ricostruzione europeo comune, con titoli di debito comune che vengano assicurati dalla comunità europea. Nel momento in cui in Italia dovrà essere deciso come spendere, con quali linee guida, lì ci dovranno essere le donne italiane insieme agli uomini italiani. Le donne devono stare dentro gli organismi che ricostruiranno il nostro Paese e l’Europa. Tutti dobbiamo vigilare affinché ciò avvenga. E’ un dovere di civiltà.