Roma è una città di straordinaria bellezza e di grande caos. Le due definizioni non sono in antitesi ma definiscono l’identità della città, conosciuta nel mondo per la sua dimensione archeologica, storica e museale. Ma Roma non è fatta solo di monumenti, resti archeologici, palazzi e chiese barocche, musei e luoghi istituzionali, strade eleganti e negozi fashion che la tradizione iconografica racconta. È anche una città che si è progressivamente estesa dal centro storico alle periferie, con un processo di urbanizzazione avviato in seguito alle grandi trasformazioni urbanistiche che hanno interessato la città dai primi decenni del ‘900, con la demolizione di quartieri centrali come la Spina di Borgo e l’Alessandrino per la costruzione di via della Conciliazione e via dei Fori Imperiali. La maggior parte dei romani oggi vive al di fuori del perimetro del centro storico, nelle tante periferie nate in maniera poco controllata, con uno sviluppo urbano segnato da una sorta di anarchia progettuale, privo di regole e che ha portato alla composizione di luoghi urbani molto distanti dalla Roma più conosciuta e rappresentata.
“Roma” è un libro pubblicato di recente e una mostra fotografica allestita al Museo di Roma in Trastevere, curata da Giovanna Calvenzi. L’autore, Massimo Siragusa, fotografo di chiara fama, vincitore di quattro World Press Photo Awards, racconta le periferie romane e scrive una bellissima pagina di fotografia documentaria. Il suo viaggio nelle periferie romane è cominciato nel 2017, osservandole e fotografando luoghi che raccontano chi li abita. Ha girato per due anni, solo di domenica e nei giorni festivi per fermare in uno scatto luoghi e cose, in totale assenza di persone. Il libro e la mostra nati dal viaggio, sono una narrazione fitta, onesta, reale di una Roma che esiste ma che è poco raccontata e forse poco considerata. La volontà meramente documentaria dell’autore è affidata a fotografie che restituiscono, con sincerità, una “grande bruttezza”, un grande caos, una costante difficoltà. Il racconto per immagini, volutamente incrociate tra una periferia e l’altra, senza soluzione di continuità, documenta la sovrapposizione pasticciata di cose, muri, recinti, cancelli, lamiere, insegne, cartelli, strutture, orti urbani recintati, facciate scrostate e graffiti ma racconta anche le difficoltà di tante persone nella gestione della quotidianità e nella relazione con il centro della città. Il viaggio nelle periferie romane è un viaggio nella quotidianità, nell’identità di una città in continuo cambiamento e che per molti aspetti sembra “altra” rispetto a Roma centro, con vistose contraddizioni rispetto alla città salotto, con un arredo urbano fatto di automobili vetuste, balconi disordinati, carcasse di auto, perfino un motoscafo parcheggiato davanti a un cancello.
Fondazione Osservatorio Roma e America Oggi incontrano il fotografo Massimo Siragusa, Giovanna Calvenzi, autorevole punto di riferimento per la fotografia contemporanea e Maria Vittoria Marini Clarelli, Sovrintendente Capitolina, per conoscere Roma anche nella sua fragilità e nella sua verità.
Massimo Siragusa
I suoi scatti documentano un’altra Roma o sempre Roma?
E’ sempre Roma e per certi aspetti la parte più autentica della città, la Roma vissuta nella quotidianità dalla maggior parte delle persone che la abitano. E’ proprio Roma, anche se insolita rispetto all’iconografia più diffusa e all’idea che si ha della città all’esterno. Non è la Roma del centro, archeologica, barocca e straordinaria, dei suoi palazzi più iconici, del Colosseo o di Piazza di Spagna ma è la Roma della quotidianità.
La mostra racconta una storia o tante storie?
Le storie sono tantissime, ma è un po’ come se fossero accomunate da un’unica storia, da un’unica identità. Il progetto di espansione della periferia parte dal giorno dopo l’unificazione d’Italia ed è diventato sempre più importante dagli anni del fascismo in poi, proseguendo nei decenni successivi. La città si espande per il progressivo svuotamento del centro storico che parte da lontano, dalla costruzione di Via della Conciliazione, dopo la distruzione del Borgo, e di via dei Fori Imperiali, con lo sventramento delle case che erano in centro e che ha determinato lo spostamento di tutti gli abitanti in zone più o meno periferiche che oggi sono abbastanza centrali, come la Garbatella, San Lorenzo ma che poi via via si sono ulteriormente espanse nel tempo. Le persone, costrette ad allontanarsi dal centro, hanno trasformato il territorio agricolo esterno e cercato nuovi equilibri nella gestione della quotidianità, fatta di spostamenti necessari ma faticosi, affidati a mezzi di trasporto poco efficienti. Nella diversità di milioni di storie individuali che ci sono nella periferia, esse sono tutte accomunate da un’unica grande storia.
Uno studio recente ha individuato in Roma 7 città. La sua osservazione attenta delle periferie le offre analogo riscontro?
Dal punto di vista della diversità sociale che abita le periferie, questo è abbastanza individuabile. Una realtà come Tor Pignattara non sembra nemmeno più una città italiana, per il suo cosmopolitismo, i negozi così diversi, i colori, i suoni della lingua, gli odori. Ogni periferia ha quasi una sua identità. Trovo invece più difficile individuare la molteplicità di cui parla lo studio, nella struttura architettonica della periferia perché tutte le aree sembrano un po’ accomunate da un’unica identità, che potrei definire una identità caotica, con palazzi, strutture, cancelli, insegne, pubblicità, sovrastrutture, arredo urbano, statue di gladiatori romani che in qualche modo dialogano e si sovrappongono tra loro. E questo è un aspetto che accomuna sia nord che sud, est e ovest della periferia di Roma.
Roma dialoga, ed eventualmente come, con le periferie?
Roma dialoga poco con le periferie. Il centro storico viene vissuto come una “cosa altra”, in cui si va il sabato sera per fare una passeggiata, ma non c’è piena integrazione anche per un dato di fatto oggettivo, perché molte delle aree delle periferie, come le consolari Casilina, Prenestina, Tuscolana, Appia, sono ad altissima densità di abitazione e lo spostamento, l’organizzazione viaria, il traffico, i mezzi pubblici sempre difficili nell’utilizzo della quotidianità, rendono il centro “altro” rispetto alla città che si vive. Le persone si chiudono all’interno di una dimensione per un fatto oggettivo, perché la città si è enormemente espansa e da una zona all’altra il tragitto è lungo e complicato e questo crea una frattura, un distacco.
Ha più osservato o più guardato per realizzare gli scatti?
Per fare il fotografo non si può osservare ma si deve guardare e quindi anch’io ho tentato di guardare.
I suoi scatti restituiscono un’altra Roma. Le auto vetuste, l’arredo urbano, l’atteggiamento della gente denotano una differenza proprio così evidente?
E’proprio così evidente. Le auto sono una presenza devastante, la città è immersa nelle auto, è un po’ come se fosse l’auto ad aver preso il sopravvento sulla città. In due anni di scatti, mentre lavoravo e osservavo questa diversità attorno a me, ho spesso pensato alla parola caos per descrivere la sovrapposizione di stili e colori diversi, perché è tutto espressione di una estemporaneità, di una casualità delle cose che avvengono. E’ Roma. Credo che nessun’altra città abbia questa identità.
La sua mostra racconta un viaggio nelle periferie di una Roma che c’è ed è poco raccontata?
Ho fotografato un’area della città amplissima, abitata dalla maggior parte dei romani che è però sconosciuta ai più, quasi nascosta, non conosciuta dalla iconografia generale, quella che celebra il centro storico, la parte archeologica, le bellezze barocche di questa città. E’ una Roma autentica, è la Roma della quotidianità, che si è sviluppata in maniera piuttosto caotica, molto colorata e allegra nel suo sviluppo e nel suo mescolare stili, aree, ruoli, epoche.
Un viaggio di due anni nella periferia allegra, colorata e multietnica. Come ha selezionato le immagini?
In mostra ci sono poco più di 100 immagini, nel libro circa 200 e sono quasi tutte le foto che ho fatto. Ho voluto inserire tutto il materiale per documentare la ridondanza visiva di immagini che si accavallano l’una accanto all’altra. Ho utilizzato quasi tutte le foto che ho fatto.
Si è più stupito o divertito in questa sua narrazione per immagini?
Mi sono stupito, perché ogni volta che scoprivo un angolo che non conoscevo era una scoperta interessante, ma non mi sono divertito perché la periferia, con le difficoltà che affrontano le persone che ci vivono, per gli spostamenti, l’organizzazione, la fatica nella gestione della vita, è difficile possa divertire. Mi ha fatto riflettere molto e mi ha indignato la metodologia di sviluppo delle periferie, quasi anarchica, dove ognuno decide per sé, in un paesaggio urbano che è la somma di gusti personali, con una dimensione pubblica che diventa privata. Tuttavia nel momento in cui faccio le foto, una parte di divertimento c’è sempre.
Il viaggio che ha iniziato nelle periferie romane dove finisce?
Non lo so, per ora è un primo capitolo.
Giovanna Calvenzi
La mostra cosa vuole raccontare?
Questa mostra vuole raccontare la periferia romana per come l’ha studiata, per un paio di anni, Massimo Siragusa, con intenti che sono unicamente narrativi. E’ una sorta di catalogo di quello che il fotografo, girando nelle diverse periferie romane, coglieva. Malgrado la differenza dei quartieri, c’è una comune anarchia che pervade tutte le periferie romane, con abbondanza di colori, ricchezza di sovrapposizioni e questo ha costretto volutamente l’autore a mantenere un registro molto oggettivo, a cercare una narrazione che non enfatizzasse, non giudicasse, non interpretasse. E’ una documentazione oggettiva, quello che ha visto Massimo Siragusa potremmo vederlo anche noi, girando negli stessi luoghi, se fossimo capaci di vedere come lui.
Nella narrazione ha prevalso lo sguardo o l’osservazione?
Sono due passaggi successivi, perché credo che lui si aggirasse nelle periferie ancor prima di iniziare a lavorare. Lo sviluppo anarchico che mette in dialogo situazioni completamente diverse, lo ha stimolato a tentare di fare una catalogazione cercando di rimanere il più possibile neutrale e quindi di arrivare a fare una sorta di lungo viaggio nel quale non è neppure necessario sapere dove siamo, se a nord, sud, est o ovest. Le immagini sono volutamente mescolate e mettono a confronto, contatto e dialogo situazioni, a partire dalle cromie, dalle forme estetiche, a molte cose che non c’entrano nulla con la realtà geografica.
Questa narrazione della Roma contemporanea è innovativa o si inserisce in un filone che racconta Roma nella dimensione meno esplorata?
E’ oggettivamente una delle situazioni meno raccontate e si inserisce certamente in una sorta di sguardo contemporaneo alla realtà che diventa forzatamente un po’ bulimico, un modo di raccontare compulsivo dove il risultato finale, nasce dalla somma delle singole situazioni piuttosto che dalla visione dei singoli frammenti di periferia.
La finalità della mostra qual è?
La sua finalità è informativa, come tutte le esperienze estetiche e artistiche che possono essere struggenti, lasciare il tempo che trovano o possono informare. Alla mostra si accompagna un catalogo che diventa un accompagnamento importante perché il libro dà proprio la sensazione di bulimia, di visioni che alla fine diventano davvero imponenti.
Il viaggio comincia nelle periferie romane e dove termina?
Nelle periferie romane ma anche nelle periferie dell’Impero.
Maria Vittoria Marini Clarelli
Sovrintendente, qual è il ruolo delle periferie nella Roma contemporanea?
Massimo Siragusa svela una cintura della città molto colorata, molto vissuta, qualcosa che ci si accorge di non aver mai notato pur vedendola. I graffiti e gli interventi spontanei colorano una città che al centro è invece di marmo e di mattone ed è come se il barocco avesse riprevalso nell’esterno della città con forme di contemporaneità spontanea interessanti. E’ una periferia che ha sicuramente la sua precarietà, i suoi muri scrostati, le sue reti orsogril ma è anche lo specchio di una popolazione che cerca di rendere significativo ogni spazio. La mostra trasmette messaggi che vanno letti e raccolti.
È proprio tanto distante la periferia dal cuore di Roma?
No perché la città ha un andamento circolare. Il rischio di musealizzare il centro, rispetto a un’area periferica vitale anche come fermenti artistici, un po’ c’è. Contemporaneo e passato stanno dialogando, ci sono molti tentativi di artisti che cercano di farlo. La mostra fa vedere come il segreto sia trovare il contemporaneo nel classico e il retaggio culturale anche nelle parti della città dove è meno visibile ma c’è, perché Roma ha tracce archeologiche dovunque. Ci sono rapporti tra gli Acquedotti romani e le costruzioni moderne.