“Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”, sono le parole che Papa Giovanni Paolo II, oggi Santo, rivolse ai giovani in un incontro rimasto nella storia. Claudio Baglioni ci è riuscito, ha preso in mano la sua vita, ne ha fatto un capolavoro e oggi la racconta in un disco, “In questa storia che è la mia”. 78 minuti di musica da ascoltare tutti insieme, dall’inizio alla fine, 14 canzoni inedite che compongono l’album racconto in cui l’autore canta un tempo che è suo ma è anche di ogni Italiano che può riconoscere la propria storia in quella di un artista immenso, non altrimenti aggettivabile, che incrocia, sottolinea e scandisce la memoria autobiografica di chiunque, perché nella storia che canta Claudio Baglioni ci siamo tutti. Un disco singolare, denso e intenso, che guarda al passato ringraziandolo senza nostalgia, festeggia la vita, inneggia all’amore e imbroglia il tempo che passa. Liriche e sonorità che aggiornano la grammatica, musicale e linguistica, di una storia cominciata 50 anni fa. Fondazione Osservatorio Roma e America Oggi incontrano Claudio Baglioni, che anche se
“non sa come è cominciata, con una piccola fisa, giocare a fare il cantante…al pianoforte ogni giorno, lezioni sul pentagramma, accompagnato da mamma a far concorsi e audizioni”
ha costruito la vita di successo, sebbene “non sappia come sia successo”, di un italiano esemplare e perbene, capace di leggere e interpretare sentimenti universali che appartengono a tutti, anche a quanti “Altrove e qui” vorrebbero “costruire una terrazza sopra il cielo per stare ovunque ma non qui”.
Come riesce chi “non ha altro che 12 note e un po’ di parole appresso e niente più” a costruire una storia come la sua?
Quelle 12 note sono in realtà come delle tessere, piccoli mattoncini ed elementi che combinati, hanno permesso ad alcuni grandi compositori di tutti i tempi, di creare pagine memorabili. Io e altri facciamo musica più tascabile, siamo scrittori di canzoni, mettiamo insieme parole in musica per creare emozioni, piccole meraviglie e piccoli incanti. Ho la fortuna, il privilegio e l’onore di fare questo mestiere da oltre 50 anni.
Che effetto le fa sapere che ogni sua canzone scandisce, sottolinea e a volte determina milioni di storie?
E’ un effetto prodigioso e ogni volta è un po’ una scommessa nei confronti di un passato e di un successo, che è successo con molto successo e che diventa un avversario nei confronti del quale bisogna tentare di giocare una partita che sia almeno alla pari. Il contenuto più importante è lo scambio di suggestioni che è sempre alla base del patto che si stabilisce tra un artista e chi lo segue. Scoprire che ci sono cambi generazionali, nuovi ascoltatori e persone che si accostano per la prima volta alla mia musica, è il contenuto migliore di un successo a cui io non mi sono mai abituato e che ho cercato di meritare sempre, in ogni occasione, tentando di proporre ogni volta cose nuove.
Le sue canzoni, incontro armonioso di parole che danzano tra loro accompagnate dalle note, raccontano storie da 50 anni. Come ci cambia la vita raccontata da Claudio Baglioni?
“Una canzone, neanche questa, potrà mai cambiare la vita”, ho scritto qualche anno fa in un brano che si intitola “Strada facendo”, perché penso che le canzoni non cambiano l’esistenza ma possono essere una buona compagnia, accompagnando la giornata, le nostalgie, i ricordi, le gioie, i passi che facciamo. Forse possono modificarci, magari in meglio, perché la musica combinata con le parole è una ricerca di bellezza e armonia e quindi sa essere fondamentale compagna di vita. In questo io sono un po’ artista, un po’ artigiano e un po’ artefice ma il merito è delle persone che decidono di fare questo viaggio nella musica insieme a me. Tutti abbiamo canzoni che ci sono particolarmente care, io ho canzoni che mi avevano toccato il cuore quando l’aspirazione di scriverne di mie non l’avevo neanche nel cassetto dei desideri e qualche anno fa le ho registrate come interprete.
“In questa storia che è la mia” è un disco scritto in questo tempo complicato, ma non parla di questo tempo. “Avere un incanto da offrire” è opportunità o responsabilità?
E’ sia opportunità, che va colta con capacità e preparazione per portare, ogni volta in un’occasione che si ripete, un bel po’ di persone a fare un viaggio da un’altra parte, senza restare dove si è, su ciò che si è già visto e già sentito, con la voglia di provare nuove soluzioni senza tradire la strada fatta insieme, ma è anche responsabilità, quella che mi porta ogni volta a fare concerti lunghissimi, di ore, cercando di dare tutto in ogni occasione, pensando che ogni nota e ogni espressione va fatta come se fosse l’ultima, sperando che l’emozione sia come la prima.
Il suo disco è un album narrazione di sentimenti universali che arrivano a tutti. Alcune canzoni sono però inni nei quali può riconoscersi un certo tipo di umanità
Noi che scriviamo canzoni e alle canzoni diamo un valore importante, abbiamo l’ambizione di andare verso un pubblico che sia il più ampio e variegato possibile, ma quando queste canzoni, un po’ come stelle fisse diventano inni generazionali o raccontano momenti della vita e della società, la soddisfazione è ancora più grande. Io ho scritto inni veri e propri, a commento e sigla di alcuni avvenimenti sportivi, per i due campionati mondiali di nuoto che si sono svolti a Roma, per le Olimpiadi invernali di Torino, per i 100 anni della FIGC della Nazionale Italiana Calcio, ma questo succede anche con canzoni, che non sono nate come inni ma che a un certo punto prendono quella forma e quel valore.
“Uomo di varie età” può essere l’inno di ogni musicista
Questa canzone è una specie di autobiografia cantata, è quello che mi è accaduto, una strana fascinazione nei confronti della musica che credo di aver appreso da una grande radio a valvole che c’era in casa mia e con cui da bambino, ero figlio unico, colmavo tutte le fantasie, le distanze, ascoltavo voci in altre lingue, orchestre, il jazz e mi sembrava di fare un giro incredibile di tutto l’universo che poteva essere concepito da un bambino di 5 anni. E’ una storia che racconto fotografandola con un grandangolo, ma nell’album narrazione c’è una vera e propria storia in cui il tempo e l’amore sono i protagonisti, vista con fotografie fatte con un teleobiettivo perché ogni canzone è autonoma ma racconta anche la parabola di una storia sentimentale che da particolare, diventa universale.
“Mentre il fiume va” è l’inno dell’amore sempre, a ogni età, anche per “cuori fuoricorso…come due cretini, tra le facce e le boccacce”
E’ quella faccia dell’amore in cui prevale il gioco e l’andare contro il tempo che è il nostro avversario principale nella vita, cominciamo a contarlo dalla nascita, gli corriamo accanto ma quasi sempre il tempo arriva prima di noi e taglia il traguardo. L’idea che anche ansimando, scherzando, tornando a esser bambini anche nell’età matura il tempo possa essere imbrogliato e raggirato, rende all’amore una sua peculiarità. L’amore è un grandissimo gioco, a volte difficile da giocare, con regole che non sono mai state scritte e che nessuno mai riuscirà a scrivere definitivamente, ma è il motore costante dell’esistenza. E’difficile scrivere una canzone d’amore perché è un argomento delicato, come un bicchiere di cristallo che al minimo urto può andare in frantumi. In questo album ho preso di petto e affrontato completamente l’argomento, anche se non è un trattato sull’amore, perché come diceva Sant’ Agostino, più si discute di una cosa e meno se ne sa. Continuiamo a scrivere cose su quello che vorremmo sapere, come indagatori o scopritori e questo forse ci rende un po’ utili alla società.
“Mal d’amore” sollecita una riflessione profonda sull’amore, necessaria in un tempo in cui ci si lascia per chat, si cancella la chat e ci si blocca sui social, nella convinzione che si annulli anche la memoria di un amore, come se non fosse mai esistito. Lei risponde parlando di mal d’amore?
Il mal d’amore è un po’ come il peccato originale, ci si nasce, è un patimento che non ha medicina, né antidoto né vaccino e forse è meglio così perché ha aspetti dolorosi e dolenti ma anche struggenti e dolci. È difficile non essere ammalati d’amore, sia quando quell’amore esiste, sia quando poi termina di vivere, si interrompe o si sospende. E’un lasciarsi andare in quelle direzioni in cui si diventa più romantici ma anche più vicini ai nostri sentimenti e ai nostri sensi. Mal d’amore e’ un brano scritto con la stessa intenzione che anima tutto l’album, un disco fatto di sonorità musicali ma anche di parole vere e sincere. E’ un disco fatto a mano, artigianalmente, come si poteva fare un album in studio quando ho cominciato, alla fine degli anni ’60, con la vivacità e l’immediatezza di allora a cui ho aggiunto le tante esperienze fatte fino a oggi. Sono 78 minuti di musica dove tutto è molto denso e intenso, da ascoltare tutto insieme, dall’inizio alla fine, perché ha un senso e per ammalarsi di quel mal d’amore che io canto nel disco.
Un album registrato al Forum Music Village, uno storico studio di registrazione. C’è un modo italiano di fare orchestrazione?
Il disco è stato registrato in tutta la sua parte finale al Forum, con alcune fasi precedenti registrate in altri studi e con l’intervento di un grandissimo numero di musicisti, il gruppo storico che da anni collabora con me, più due grandi orchestre, una romana che gravita intorno al Forum e una bolognese, con orchestrazioni molto grandi per la ricerca di sonorità che sono quelle di un tempo e per riportare i suoni delle grandi sezioni orchestrali quasi in maniera analogica. Tutta la parte degli effetti virtuali e digitali è usata solamente per dare atmosfere e creare profondità, ma tutto quello che è stato fatto è stato suonato a mano, come nella tradizione di questo grande studio, fondato nel 1970 da grandi compositori, Bacalov, Morricone, Trovajoli e altri musicisti italiani che hanno fatto tanto per la musica italiana, soprattutto come scrittori di commento a grandi film italiani e stranieri.
“Altrove e qui” è l’inno di tutti gli Italiani che vivono lontani dalla propria terra e che in qualche momento possono riconoscersi nei versi struggenti di questa canzone “ho costruito una terrazza sopra il cielo per stare ovunque ma non qui…ho disegnato un universo parallelo dove non ero più così”
Il fatto di trovarsi, a un certo punto della propria storia o addirittura per tutta la vita, in un luogo che non è lo stesso al quale uno avrebbe pensato, è una condizione sempre strana che posso solamente immaginare perché, pur girando molto, ho vissuto sempre intorno ai luoghi in cui sono nato che convergono su un grande centro. Penso che chi si trovi lontano abbia all’inizio un senso di spaesamento, perché non sa bene dove si trova e vorrebbe mantenere la vicinanza al luogo da dove arriva, come un filo sottile che però è forte, non si rompe mai, perché sempre continua il desiderio e l’attrazione a colmare questa distanza come una speranza che non si perde mai, pensando alla nostra terra di origine dove volano i nostri pensieri. In “Altrove e qui” confesso quella voglia di vivere in un verso “ho vissuto per lasciare un segno” che è un po’ la storia di chiunque. Io ho cominciato a registrare quando i dischi si chiamavano incisioni e noi pensavamo di incidere un solco non solo nel vinile del long playing ma anche nella sfera emozionale delle persone che ci avrebbero ascoltato. In questo essere sia altrove che qui, o qui e lì, per cercare di attraversare le varie epoche della vita, le varie età ma anche i tanti posti. Il vantaggio che l’artista può avere è la possibilità immaginifica di essere in tanti luoghi diversi, perché c’è qualcosa di lui che nello stesso momento è nelle orecchie, nei cuori e nei pensieri di altre persone che sono in posti differenti.
È consapevole che la sua strada è già costellata di numerosi segni ed è affollata da una varia umanità di varie età?
Un po’ sì, ma bisogna anche cercare di dimenticare questa cosa, per non montarsi troppo la testa. Quando ho cominciato a fare i primi provini e le audizioni, pensavo che questo successo non sarebbe mai arrivato e che se fosse un giorno arrivato, sarebbe finito subito. Invece la cosa è durata, ne sono consapevole, fiero e orgoglioso ma bisogna evitare la trappola del delirio di onnipotenza, un rischio che cantare in uno stadio, in mezzo a centomila persone, tra entusiasmi e applausi, a qualcuno può capitare. Io ho sempre fatto grandi spettacoli dal vivo, nelle arene e negli stadi, mettendo dentro tanti protagonisti e mischiando discipline artistiche diverse, danza, recitazione, movimento, colori e orpelli perché credevo, come alcuni compositori dell’Ottocento, che l’arte può essere un miscuglio di espressioni, una sorta di teatro totale. E’ come se avessi comprato giocattoli molto costosi e chiamato altri ragazzini, a volte molto cresciuti, a giocare con me.
Sarà perché è un architetto e riesce a integrare ogni cosa in maniera armonica, come fa con le parole con cui compone architetture lessicali che aggiornano la grammatica italiana. Cosa rappresenta la parola per lei?
La parola è un suono che però ha una decrittazione, può essere capito e ha un significato. Essendo autore sia dei testi che della musica, spesso vivo quasi un bipolarismo, perché mentre la parte musicale esce fuori in maniera spontanea, gioiosa e naturale, la scrittura delle parole, che faccio dopo aver ultimato la parte musicale, è un momento faticoso. L’italiano è una lingua molto bella e straordinariamente ricca, ma ha parole lunghe e non facilmente musicabili che rendono faticoso mettere, nell’andamento melodico, un certo tipo di concetti che vorrei esprimere. E’ una ricerca complessa, cerco il suono anche dalla lingua, perché le parole che poi scriverò non sono dette ma sono cantate, devono essere intonate, arrangiate proprio su quel tipo di vocalità e sonorità. Alcune parole hanno non solo un significato ma anche un significante, una forma fisica propria che ci emoziona e che anche attraverso il suono ci dà una scossa particolare. Le parole, che cerco di mettere insieme al meglio, sono un ulteriore arrangiamento affinchè, oltre a raccontare, esse possano volare insieme alla musica. Si dice che il musicista sia un architetto senza edificio perché il tipo di composizione e di fantasia con cui crea non è molto diversa dal progetto di una architettura. Io mi considero un architetto credente ma non praticante perché i miei studi li ho applicati solo a disegnare i palchi dei miei palcoscenici.
Le parole di “Avrai”, una canzone che è già nella storia della musica italiana, sono appena entrate nella serie americana “Station 19”, spin off di Grey’s Anatomy. Che effetto le fa?
Scoprire che “Avrai” venga citata in una serie così famosa, tra l’altro in maniera fortemente poetica, mi ha sorpreso e inorgoglito. Molti nostri testi, di noi cantautori, entrano a far parte di una cultura da studiare, sono nelle antologie, diventano materia di tesi all’università, ed è curioso perché è una forma di riscatto verso un’arte popolare che in altri tempi non sarebbe avvenuto. Fa piacere sapere che l’italiano continui a essere una lingua molto studiata nel mondo anche dai non italiani, perché è bella, ricca, fantasiosa e merita di essere studiata affinchè se ne faccia un utilizzo meno approssimativo. Del resto una lingua è una scienza esatta, ogni parola significa esattamente quella cosa che si vuole indicare e che deve essere accuratamente cercata. Un esercizio utile a tutti che consiglio è fare una sorta di safari tra le pagine del dizionario, per scoprire parole e significati nuovi che consentano di comunicare meglio.
Che ricordo ha dei suoi concerti americani?
Nel primo concerto del 1974, al Madison Square Garden, ho realizzato il sogno di riuscire a varcare l’oceano con la mia musica e di vivere il confronto con un pubblico diverso, fatto di italoamericani ma anche di americani. Tutto il tempo in cui non cantavo, lo passavo nei negozi di strumenti musicali perché c’erano chitarre che in quel momento si trovavano solo in America e che io sognavo di suonare, per provare sotto i polpastrelli quella perfezione di cui allora si favoleggiava. Ogni volta che sono andato in America, è stata un’esperienza interessante. L’ultimo concerto che ho tenuto a NY era in una sinagoga sconsacrata, da solo con i miei strumenti, un concerto racconto molto particolare, con un’atmosfera intima quasi di musica leggera da camera.
L’America ama la sua musica ma anche la sua storia, di italiano perbene, che rimanda a un mondo semplice e bucolico caro a tutti gli Italiani, ovunque si trovino e apprezza anche la sua vicinanza alle Istituzioni, i concerti con le Bande Musicali dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato
Io sono figlio di due emigrati che hanno fatto un viaggio più piccolo rispetto ai nostri connazionali che si sono trasferiti in America o in luoghi ancor più lontani, ma comunque anche loro partirono dalla campagna umbra per tentare un percorso alla ricerca di una vita migliore. I miei genitori sono espressione di una società rurale, dove le famiglie erano più grandi e numerose, riunite attorno all’incanto del fuoco nel caminetto, con le parole, la veglia, la condivisione di valori dei quali a me è rimasta, pur non avendoli vissuti, una grande nostalgia. Ho sicuramente appreso tante cose in quegli anni di vita e percepito suggestioni che sono e rimangono dentro di me.
I ricordi che “51 Montesacro” ieri e “Uomo di varie età” oggi fotografano, sono sempre gli stessi ma lei con quali lenti li guarda?
La nostalgia è un giro sentimentale che ci aiuta tanto e sempre perché, al di là della sua parte più malinconica, è una rete necessaria per catturare facce, volti, visi, prime sensazioni e vere emozioni, è un segno di vitalità. Si è nostalgici perché continuiamo a circondarci di una serie di cose che ci sono accadute e che ci hanno costruito e resi come siamo. Abbiamo bisogno della nostalgia per tenere vive sensazioni irripetibili, come la prima volta in cui ho visto il mare o la prima neve a Roma. C’è una parte costruttiva nella nostalgia, su cui fondiamo il nostro presente e i primi secondi del futuro. Il mio augurio è che i prossimi giorni siano belli come speriamo e come in fondo meritiamo.