Roma, Colle Oppio, Trastevere, la città capitale d’Italia, due rioni storici e centrali, sono lo scenario geografico e sociale in cui si è consumata la storia incredibile di un bambino invisibile. Colle Oppio è nella zona monumentale della città, vicino al Colosseo, ricca di suggestioni storiche con il Padiglione della Domus Aurea che Nerone fece costruire e abitò dopo l’incendio del 64 d.C., le Terme di Tito e quelle di Traiano, ma è anche il polmone verde del rione Monti, con una vegetazione ricca e varia di pini, lecci, cipressi, oleandri, palme, rose, mirto e alloro. Tutti a Roma conoscono Colle Oppio, come tutti, anche gli stranieri, amano Trastevere, il quartiere degli artisti e delle trattorie, dell’artigianato e della cucina tradizionale romana. Piazza Santa Maria in Trastevere è il centro e il cuore di una zona dove tutti conoscono tutti e dove si possono ancora oggi ritrovare i comportamenti più veraci di una romanità partecipata e condivisa.
Eppure la pubblicazione di un libro, presentato in prima nazionale all’Università eCampus, “La vita cerca legami. Storia di Francesco” che sembra la trasposizione nella realtà di un giallo ottocentesco o di un film del neorealismo, ricostruisce una storia vera e drammatica che si svolge incomprensibilmente proprio in questi contesti. La storia di Francesco, triste e tragica, è tale perché qualcuno ha deciso che lo fosse e molti hanno contributo a rendere strutturata la sua condizione di infelicità. Può una madre decidere scientemente di sottrarre il proprio figlio a una vita normale, negandogli il diritto all’esistenza giuridica e civile, creandogli confusioni perfino sul nome, privandolo di qualsiasi forma di relazione parentale o amicale, costringendolo a una vita randagia ma soprattutto negandogli amore? Francesco ha avuto questa madre, che lo ha reso invisibile al mondo non iscrivendolo all’anagrafe quando è nato, non portandolo a scuola, né in parrocchia, né all’oratorio, che lo chiamava Francesco e a volte Mario e non gli festeggiava il compleanno, come se non fosse mai nato o fosse uno degli animali randagi che ogni tanto si univano alla loro sciagurata compagnia di sbandati. Francesco che fino a 13 anni non ha mai avuto un pigiama, anzi nemmeno un letto e nemmeno una casa, Francesco che costruiva la sua memoria autobiografica rubando frammenti di vita, ma spesso la vita era quella degli altri, dei bambini che giocavano al parco, che avevano fratelli, attenzioni e cure, bambini che uscivano da scuola con gli zaini pieni di libri e quaderni. Bambini appunto, non Francesco, con un’infanzia negata e una vita abusata. Ma se Francesco ha avuto questa madre, ha parimenti avuto attorno a lui un mondo distratto, una città assente, una umanità spietata, istituzioni che non hanno saputo operare. Sono molti gli attori tristemente protagonisti di questa storia, espressione di una società che non vorremmo aver conosciuto, conniventi alcuni, distratti altri, omissivi taluni. Gli anni che vanno dal 1972, quando la vicenda ha inizio, al 1985, quando finalmente qualcuno si accorge, tardivamente ma provvidenzialmente, dell’esistenza di Francesco, sono anni in cui a Roma vigila una soglia di attenzione alta, sono gli anni che incrociano la stagione buia del terrorismo, il rapimento di Aldo Moro, la strage di via Fani, l’attentato a Papa Giovanni Paolo II, il rapimento di Emanuela Orlandi. Sono anni in cui compaiono numerose le prime telecamere di sorveglianza, dove il sospetto di ciascuno nei confronti dell’altro è diffuso e legittimo, si scrutano borse, zaini, qualunque cosa potesse contenere armi o bombe. Eppure la sciagurata vita di una madre e del suo bambino, si consuma tragicamente e invisibilmente in una città presidiata, in zone affollate e ipercontrollate. C’è da chiedersi dove fosse Roma, dove fossero le istituzioni, i cittadini, le famiglie dei protagonisti, i compagni di viaggio. Tante domande, tante trame in cui l’autrice Melita Cavallo si addentra con partecipazione e premura, scavando tra le pieghe piaghe della vita speciale di un romano senza vita né città. La storia di Francesco, raccontata fino a oggi, si arricchisce di nuovi personaggi e nuove situazioni, ma resta un enigma ancora non completamente risolto. È molto contemporanea anche per le modalità con le quali Francesco riesce a costruire legami, perché ad un certo punto, questa storia dal sapore antico incontra il mondo social e Facebook avrà un ruolo importante nella costruzione di nuovi e fondamentali rapporti.
Fondazione Osservatorio Roma e America Oggi incontrano l’autrice, la voce più autorevole del diritto minorile italiano, che si è battuta per l’approvazione della legge per la ricerca delle proprie origini, utile anche ai tanti Italiani che vivono in America e che possono ritrovare, attraverso la storia di Francesco, il desiderio di conoscere e appropriarsi delle proprie origini e radici italiane. La storiografia racconta come per alcuni decenni, successivi alla Liberazione dell’Italia, molte coppie americane o italoamericane abbiano adottato, in modo a volte legale, altre meno, centinaia di minori appartenenti a famiglie numerose che vivevano nell’Italia meridionale. Questa storia è anche dedicata a loro.
Presidente Melita Cavallo, chi è Francesco e che storia racconta?
Francesco è un giovane che si è presentato a me per chiedermi di scrivere la sua storia, nella speranza che qualcuno, leggendola, possa comprendere di chi sia figlio Francesco, chi sia suo padre e per quali motivi sembra che un destino implacabile abbia decretato che i misteri sulla sua nascita debbano rimanere tali. Francesco conosce la madre e anche ciò che non gli ha saputo e potuto dare, trascinandolo in una vita molto dolorosa, in cui il bambino ha sofferto privazioni di ogni genere, senza casa, famiglia, scuola, amicizie o relazioni affettive con parenti. Francesco è stato un bambino invisibile e con una vita molto sofferta fino a dodici anni e mezzo, quando una persona responsabile si è finalmente accorta della sofferenza di questo ragazzo, vedendolo alla finestra con il naso schiacciato contro i vetri a osservare lo scorrere di una vita alla quale sembrava non appartenere.
Cosa significa essere un bambino invisibile?
Significa non esistere per lo stato sociale, perché se il bambino non è stato anagrafato alla nascita, né dalla madre che ha partorito in una clinica privata rinomata, né dall’uomo che ha pagato le spese, il bambino non esisteva. Francesco ha smesso di essere invisibile quando qualcuno si è accorto di lui, è stato portato in una struttura di Salesiani, l’Istituto Don Orione in via della Camilluccia e il Tribunale per i Minorenni ha cominciato a occuparsene.
Francesco non aveva diritto a fare le domande che pur intimamente si poneva. Un bambino che non può chiedere, che bambino è?
È un bambino che non ha riferimenti se non quello, unico e negativo, della madre. Tuttavia quando è stato inserito in una struttura dove ha ricevuto attenzione e amore, è riuscito a superare le sue sofferenze, le mancanze, la privazione assoluta di tutto ciò a cui ha diritto un bambino.
Roma, Colle Oppio, Trastevere, sono lo scenario in cui si consuma la storia di un bambino invisibile. Come è stato possibile?
La storia suscita interrogativi perché si svolge in anni, dal 1972 al 1985, in cui c’era grande attenzione al territorio, per le difficoltà sociali e storiche legate alla drammatica stagione del terrorismo. Eppure nessuno ha visto, anche quando avrebbe potuto vedere. Una volta Francesco è stato portato da una donna che lo aveva trovato solo in strada, a una stazione dei Carabinieri. La madre lo ritrova e i Carabinieri affidano il bambino a questa donna in evidente stato di povertà e difficoltà, sporca, malvestita e malconcia come Francesco, piena di pacchi di spazzatura che raccoglieva per strada, assolutamente ed evidentemente inadeguata. Come è stato possibile? Francesco si pone e pone a noi tutti questo interrogativo doloroso.
Chi avrebbe dovuto vedere e non ha visto?
Non essendo stato iscritto all’anagrafe, non c’era scuola, non c’era un medico che seguiva il bambino, né vaccinazioni che potessero monitorarlo. Solamente nella strada, dove la madre se lo trascinava dietro in una vita randagia, qualcuno poteva attenzionare, ma Francesco e la sua storia terribile è passato inosservato perché non c’era attenzione sociale.
Un bambino che ha vissuto una vita randagia, che adulto può diventare?
Gli incontri successivi al suo collocamento in una struttura sono stati fondamentali, a partire dagli insegnanti attenti e premurosi che ne hanno intercettato paure e valorizzato potenzialità. È nella scuola che “il caso di Francesco” diventa “la storia di Francesco”, dove ha studiato fino a 18 anni, ha poi fatto un concorso ed è diventato militare anche per il bisogno di ordine e certezze, per essere inquadrato con regole che non aveva mai avuto. Oggi è felice del suo lavoro, è un ecologista appassionato, ama moltissimo la natura che considera la sua dimensione ideale, le piante e gli animali, ha acquistato una piccola casa circondata da un terreno dove accoglie gli animali abbandonati per strada e maltrattati. E’ un ragazzo resiliente, capace di resistere a tutti gli urti che ha subito da bambino e da ragazzo, che ha risolto i suoi problemi con l’aiuto di quanti hanno saputo lavorare sulla sua autostima, un valore che gli ha consentito di affermarsi. Francesco ha cercato sempre legami, cerca ancora suo padre, ma è riuscito a trovare i suoi due fratelli, in un modo anomalo e straordinario, che rende la sua storia ancora più incredibile. Oggi ha la possibilità di relazionarsi con una parte della sua famiglia, ma non con la madre, assistita in una struttura pubblica, che Francesco non riesce ad accettare per la vita randagia e anaffettiva a cui lo ha costretto.
La storia di Francesco come interpreta il concetto di resilienza?
La resilienza è la capacità di un metallo di resistere ai colpi e quindi un ragazzo che resiste ai colpi che la vita gli riserva, è un ragazzo resiliente, resiste e riesce ad affermare le sue potenzialità nella vita personale, lavorativa, familiare e amicale nonostante abbia avuto una madre invasiva, pervasiva, sciagurata che lo ha privato di tutto, perfino del gattino a cui il bambino si era affezionato e che lei ha venduto senza alcuno scrupolo. Francesco è l’emblema della resilienza e di come nella vita ci si possa risollevare con l’aiuto di adulti di riferimento che hanno saputo dare attenzione e amore.
“La vita cerca legami” è un titolo ma anche un manifesto. Cosa significa esattamente?
Significa avere uno spirito comunitario di solidarietà, fare attenzione alle cose che non ci sembrano corrette, intervenire, segnalare, non girarsi da un’altra parte. Ciò vale in tutti i casi in cui ci sia qualcuno in difficoltà, bambini maltrattati, donne abusate. Tutti abbiamo sempre la possibilità di fare qualcosa.
Oggi c’è una legge che consente la ricerca delle proprie origini. Quali scenari apre?
Tutti i bambini adottati, in Italia e all’estero, dovrebbero sapere da subito di non essere figli dei genitori che li hanno allevati, in modo da non avere strappi nell’età adulta. Se ciò non avviene, questa è una verità di cui a un certo punto, nella vita, diventeranno consapevoli. L’ascolto di centinaia di persone adottate, mi autorizza ad affermare che in tutti scatta il desiderio di conoscere le proprie radici, anche se si è soddisfatti della propria vita di figli adottivi. Oggi è possibile per tutti coloro i quali abbiano compiuto il 25esimo anno di età, eccetto casi particolari nei quali è possibile anche prima, ma spesso a chiederlo sono persone ancora più adulte. E’assolutamente naturale cercare notizie della propria madre, che può aver partorito in maniera anonima, e in questo caso il Tribunale per i minorenni fa ricerche sul territorio o nei propri archivi se ha dichiarato il bambino adottabile. E’ possibile cercare anche i propri fratelli, quindi la vita cerca legami ha una risposta anche in questa legge.
La storia italiana racconta di molte adozioni avvenute soprattutto nell’Italia meridionale, dalla fine degli anni ’40 ai primi anni ’60, di minori adottati da coppie americane o italoamericane. Hanno anche loro diritto a conoscere le proprie origini?
Certamente. Centinaia di bambini italiani sono stati adottati da cittadini americani o in qualche caso portati in America dal dopoguerra in poi, soprattutto minori nati in famiglie povere e numerose del Meridione. Molti di loro, diventati adulti, attraverso l’esame del DNA sono riusciti a ricostruire da quale zona d’Italia provenivano. Ho seguito personalmente una ricerca che lo documenta. Un certo interesse si è registrato anche dopo il terremoto dell’Irpinia nel 1980, quando a un mio appello fatto su Famiglia Cristiana per far adottare bambini grandicelli rimasti orfani a causa del terremoto, risposero coppie americane. Ricordo di aver dato in adozione due bambini di 10 e 12 anni a una coppia, americano lui, italoamericana lei, che portava regali quando andava in visita a tutti i bambini accolti nella struttura dove erano ospitati i due bambini che poi hanno adottato. Con loro, per molti anni, ho conservato i contatti, i bambini mi scrivevano e telefonavano descrivendomi le meraviglie che avevano trovato nella nuova casa in America. Dopo molti anni sono tornati a salutarmi e sono stata felice di trovarli istruiti, risolti, sereni. Conosco molto bene la realtà americana per aver approfondito lì i miei studi giuridici sulla Cross Examination, grazie a una borsa di studio che ottenni appena laureata e che mi ha permesso di vivere negli Stati Uniti per un periodo, girandoli in lungo e in largo. Ho vissuto sempre con grande emozione le adozioni a coppie americane o italoamericane, perché sapevo che rappresentavano un’ ottima opportunità per i bambini.
Presidente, quali sono oggi i valori delle origini e delle relazioni?
Sono valori essenziali, di cui nessuno può fare a meno, perché aiutano in ogni momento della vita, nel dolore e nella sofferenza. E’ per questo che la vita cerca legami e la storia di Francesco ce lo ricorda.