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Il volto urbanistico di Roma. Intervista con Luca Montuori

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Sessanta anni fa Roma ospitò le Olimpiadi, scrivendo una pagina bellissima rimasta nella storia dei Giochi Olimpici e della città. Nei pochi anni trascorsi da quando il Comitato dei Giochi assegnò alla capitale italiana l’organizzazione della XVII edizione delle Olimpiadi al 25 agosto 1960 quando furono inaugurate, Roma cambia volto. La città dalla storia eterna, accetta e vince la sfida di ripensarsi urbanisticamente, progetta e realizza infrastrutture e impiantistica sportiva, perfino un Villaggio Olimpico nel centro urbano cittadino per accogliere 5.338 atleti provenienti dalle 83 nazioni partecipanti. La scuola romana di architettura, nei suoi esponenti più autorevoli, Pier Luigi Nervi, Annibale Vitellozzi, Adalberto Libera, Luigi Moretti, con il progettista Riccardo Morandi, offre un apporto determinante per ripensare Roma, alle prese con la difficile e necessaria espansione iniziata nel dopoguerra, disciplinata da un Piano Regolatore del 1931. La capitale si prepara ad accogliere l’evento sportivo, lasciandosi traghettare in una modernità dialogante con la sua realtà di città archeologica e monumentale.  

Roma cambia volto sotto gli occhi del mondo e la trasformazione piace, incuriosisce, attrae.  Le gare di lotta greco-romana che si svolgono nella Basilica di Massenzio e le prove di ginnastica nelle Terme di Caracalla aggiungono fascinosa suggestione alla narrazione di Giochi Olimpici celebrati oggi, nel sessantesimo anniversario, all’insegna del ricordo di vittorie leggendarie, anche italiane e di valori, non solo agonistici, dei quali le Olimpiadi di Roma sono evocative.

Per approfondire le trasformazioni della città e capire come e quanto siano state determinanti per Roma e come vadano lette e  considerate a 60 anni dalla loro realizzazione, Osservatorio Roma e America Oggi incontrano Luca Montuori, architetto, studioso di  urbanistica, professore di Progettazione architettonica e urbana, romano e profondo conoscitore di Roma, per molti anni membro del CDA Casa dell’Architettura di Roma, nipote di Eugenio Montuori che ha progettato l’edificio di testa della Stazione Termini, attuale Assessore all’Urbanistica di Roma Capitale.

Le Olimpiadi di Roma del 1960 come hanno cambiato il volto della città?

Hanno completamente cambiato il volto di una città che nel dopoguerra si era rimessa in moto, modernizzando le infrastrutture più importanti e avviando lo sviluppo delle periferie, attraverso la costruzione della tipologia  “palazzina” che ne descrive l’elemento distintivo rispetto ad altre città. L’espansione organica della città fu pensata proprio in occasione delle Olimpiadi, che sono state l’ultimo momento in cui un’idea complessiva della città ha incarnato un’idea politica di come la città e lo Stato si vedevano nella modernità. Sono state realizzate opere che hanno avuto un impatto molto importante sullo sviluppo successivo e che hanno aiutato a mettere a   sistema, parte di quello sviluppo che stava avvenendo in maniera meno controllata, su interessi particolari delle grandi società di sviluppo urbano di quel periodo.

Cosa rese possibile un cambiamento sostanziale della città?

La capacità di visione che portò a coinvolgere i migliori architetti e progettisti dell’epoca, perché l’interesse era non solo per cosa si realizzava ma per come lo si faceva. Nascono i grandi progetti per completare il quartiere Eur, per il Villaggio Olimpico e a questi luoghi era collegato il tema abitativo. Il Villaggio è diventata poi una zona residenziale ben integrata nella città.

L’organizzazione dell’evento sportivo ha comportato nuove linee di sviluppo architettonico e infrastrutturale. Qual è stato l’effetto su Roma nell’immediatezza, a breve e a lungo termine?

Si realizzarono a brevissimo termine una serie di operazioni infrastrutturali importanti, la costruzione di grandi assi stradali, la via Olimpica che anni dopo si completò con la realizzazione della sopraelevata, il collegamento della parte ovest della città, Villa Pamphjli, la Gianicolense con la parte Nord verso Pisoazzale Clodio, il viadotto del Villaggio Olimpico, il Muro Torto. Si realizzarono arterie a veloce scorrimento, all’interno della città, tipiche di quegli anni, quando la visione di spostamento nella città incarnava in quel momento un’idea di modernità che si basava sull’uso dell’automobile privata. Il sogno della borghesia che cresceva all’interno della città era abitare in una palazzina, parcheggiare l’auto in garage, prendere un ascensore che portava direttamente in casa e sentirsi già nel futuro. Questi interventi erano definiti ipermoderni, con una parola  che oggi è difficile da utilizzare all’interno di una città.

Ipermodernità in una città storica come Roma?

Gli interventi realizzati furono anche un grande momento di confronto tra il moderno e l’antico. Una parte delle gare olimpiche si svolsero all’interno della Basilica di Massenzio, dove furono realizzate una serie di infrastrutture effimere. L’idea che Roma, nello sviluppo degli impianti sportivi e delle infrastrutture, potesse confrontarsi con la sua classicità, era una visione di quella che doveva essere la modernità. A lungo termine ha lasciato alcune importanti direttrici che ne hanno definito lo sviluppo, oltre al già citato Villaggio Olimpico, la via Olimpica che collega Piazzale Clodio all’Aurelia e alla Gianicolense, L’EUR con il completamento del progetto E42 (Esposizione Mondiale del 1942) e la costruzione del Palazzo dello Sport. Le infrastrutture si sono inserite bene all’interno dei tessuti urbani anche perché sono state accompagnate da un cambiamento culturale di come la città doveva crescere. Sulle infrastrutture sportive abbiamo una eredità difficile, perché la modernità prevede la specializzazione degli edifici e il cambiamento delle specialità con cui svolgere determinate attività sportive ha rivelato un problema di resilienza degli impianti. L’ abbattimento del Velodromo Olimpico con la dinamite, avvenuto qualche anno fa, contro ogni buon senso, ripropone il tema, nella modernità, di come rivedere questa eredità. Il riuso del moderno è un aspetto che va affrontato.

La costruzione del Villaggio Olimpico, la via Olimpica, l’espansione dell’EUR, la realizzazione del sottovia di Porta Pinciana e del Lungotevere, l’inaugurazione dell’aeroporto di Fiumicino: 5 eventi nell’evento. Ospitare Giochi Olimpici comporta sempre una riorganizzazione urbanistica delle città o fu Roma, nel 1960, ad aver bisogno di ripensarsi come capitale ospitante?

Roma aveva un Piano Regolatore che risaliva al 1931 e già da tempo, dal dopoguerra, era in corso un importante dibattito, tra i professionisti del settore, sugli sviluppi a cui avviare la città. Le Olimpiadi furono l’occasione per realizzare anche il collegamento con il lago di Castelgandolfo, una strada veloce che portava fino alle rive del lago dove si svolgevano alcune gare. Il sottopasso di Porta Pinciana e la realizzazione del Muro Torto oggi sarebbero impensabili in un tempo tanto breve. Lo Stato e il Comune furono sinergici nel costruire la propria visione del futuro all’interno della trasformazione della città. Roma si ripensò e suscitò lo stupore dei Paesi europei più avanzati per la capacità di organizzare in modo molto efficiente l’evento sportivo. Si deve però considerare che potè contare nella comprensione dei cittadini e degli osservatori che capivano come la città avesse bisogno di tempo per trasformarsi. Le foto degli atleti che si riparavano dal sole sotto il viadotto di Nervi perché gli alberi non erano stati ancora piantati nel villaggio, non destò critiche. I luoghi erano ancora spogli, polverosi, non vissuti ma si capiva che era necessario un tempo per dare un nuovo volto alla città che fu capace di darsi una grande spinta, in uno degli ultimi momenti in cui si registrò  una visione di modernità con cui dopo Roma non ha più saputo fare i conti in maniera organica, al di là della costruzione del singolo edificio.

La rivoluzione urbanistica del 1960 era l’unica soluzione possibile?  Si sarebbe potuto pensare anche ad altro?

In quel momento l’auto privata era il simbolo di una società e di una città in crescita. In Francia si costruivano sopraelevate e tangenziali. Piazza Venezia e Piazza del Popolo erano parcheggi a cielo aperto e sembrava normale fosse così. Su Ponte Milvio passavano auto e tram. La città era molto più piccola, la densità era diversa e gli spostamenti potevano essere pensati in automobile. E’ mancata forse la lungimiranza di guardare ad altre capitali come Parigi e Londra che avendo una storia diversa, avevano cominciato a costruire la loro grande modernità molto prima di Roma, realizzando la metropolitana già dall’800. All’epoca forse si sarebbe già dovuto pensare a uno sviluppo integrato del trasporto pubblico, cosa che non fu fatta.

Le Olimpiadi, organizzate in una città archeologicamente e storicamente impegnativa, 15 anni dopo la fine della II guerra mondiale, proiettata alla necessaria ricostruzione e all’espansione, rappresentarono una sfida o un’opportunità?

Una sfida e un’opportunità. Una sfida per l’impresa da realizzare, un’opportunità perché Roma aveva bisogno di completare, con una visione organica, la ricostruzione iniziata nel dopoguerra, con una necessaria modernizzazione. Infrastrutture come la Stazione Termini, l’aeroporto di Fiumicino con gli hangar costruiti da Riccardo Morandi furono una grande sfida all’ingegno. Pier Luigi Nervi aveva i suoi piccoli laboratori sulla via Portuense dove sperimentava il rapporto tra la forma del cemento e la tenuta statica dello stesso.  Rappresentò una sfida per tanti che credevano che Roma e l’Italia dovessero diventare un paese moderno. In quel periodo eravamo all’avanguardia, Nervi fu il primo a capire l’importanza del rapporto tra progettazione e realizzazione costruendo un sistema che teneva insieme le diverse fasi e con questo fu in grado di realizzare rapidamente le opere, perché l’altra sfida vinta fu la velocità di realizzazione. Due anni per costruire opere che oggi faticherebbero a terminare la sola fase progettuale nello stesso tempo, forse perché la complicazione ha sostituito la complessità e non si è più in grado di tenere insieme programmazione e attuazione delle opere. La sfida fu vinta perché molti professionisti si misero in discussione per entrare nelle istituzioni, Adalberto Libera fece un grande lavoro per realizzare il Piano INA CASA, collaterale allo sviluppo dei grandi piani, per dare una casa alle classi di ceto medio basso, perché quelle di ceto medio alto abitavano nelle palazzine dei quartieri bene come Balduina e Vigna Clara. L’iniziativa pubblica era in quel momento in grado di incarnare nella forma della città un’idea del futuro. Dal 1960 a oggi si è persa la capacità di dire cosa si pensa debba essere il futuro delle città, dove si giocano le principali sfide del futuro.

La scuola romana di architettura quale ruolo ha avuto nella progettazione delle grandi opere?

Intorno al 1960 esisteva ancora un apporto italiano e romano alla visione del movimento moderno dell’architettura.  La modernità fu declinata in Italia con una visione mediterranea molto importante diventata scuola per altri professionisti fuori dall’Italia, soprattutto per la scuola portoghese e spagnola. In quegli anni si seppero coniugare dati del barocco con la modernità. La pensilina della Stazione Termini fu salutata da Gio Ponti come un grande elemento che sapeva interpretare la plasticità tipica dell’architettura romana. Oggi non esiste più una scuola romana ma esiste una via romana all’architettura nella capacità del confronto con la storia e della lettura della complessità e della stratificazione della città che gli architetti devono continuare a coltivare nascendo e crescendo, professionalmente, in questa città.

La Stazione Termini, uno dei simboli moderni di Roma, il cui restyling  fu curato dall’architetto Eugenio Montuori, suo nonno, è espressione della scuola di architettura romana

La stazione Termini fu una grande occasione di confronto tra gli architetti romani, un’opera che fu parte della discussione della città coinvolgendo tutti e sostenuta da tutti perché si capiva che bisognava dare alla città una stazione moderna ma che fosse anche un simbolo per chi arrivava a Roma. La Stazione Termini è di fronte alle Terme di Diocleziano, uno dei principali monumenti della Roma antica. Termini è vicino Santa Maria degli Angeli dove Michelangelo costruì la Basilica innestandosi all’interno delle terme romane e ciò testimonia come l’antico e il moderno possano convivere. Stiamo ragionando, con Ferrovie, proprietaria dell’area, a un progetto organico di sistemazione del piazzale antistante la stazione e a un ripensamento del ruolo della stazione Termini nella città e nei suoi spazi, le cui gallerie commerciali sono le aree commerciali più visitate della città.

In occasione delle Olimpiadi del 1960, fu inaugurato l’aeroporto di Fiumicino. Inglobare nell’area metropolitana un aeroporto intercontinentale che impatto ha avuto su Roma?

Un impatto fondamentale perché ogni capitale ha bisogno del suo aeroporto. Fu inaugurato Fiumicino e anche il primo collegamento con la città. Cominciava una nuova storia che continua ancora perché oggi, nella città attuale e futura, rappresenta uno dei grandi poli di sviluppo, ci sono progetti per realizzare business center importanti nei pressi dell’aeroporto e un collegamento rapido tra l’aeroporto e la città.  La chiusura dell’anello ferroviario serve a distribuire il traffico in modo da avere un collegamento veloce tra la Stazione Tiburtina e l’aeroporto di Fiumicino che consentirebbe alla stazione di diventare un polo dialogante con le altre città italiane ed europee attraverso l’Alta Velocità e con il resto del mondo attraverso l’aeroporto di Fiumicino.

Se dovesse pensare, da architetto e studioso di urbanistica, a un progetto ambizioso per Roma, da dove comincerebbe?

Una visione della città dovrebbe necessariamente partire dall’importanza che il paesaggio e la rete ambientale ha per Roma, con grandi luoghi urbani in aree subito esterne all’anello ferroviario. La riconsiderazione del sistema delle grandi reti del paesaggio all’esterno della nostra città, favorendone l’accessibilità con un trasporto pubblico che consenta di attraversarla tutta, per rendere più moderno il rapporto tra i luoghi in cui viviamo, lavoriamo e trascorriamo il tempo libero, dovrebbe essere un punto di partenza per la Roma del futuro. Roma ha ampi spazi vuoti al suo interno dove le persone possono vivere in armonia con la natura. La prima parte di questo progetto di sviluppo, che si chiama Anello Verde, condiviso con Ferrovie, è stato approvato dalla Giunta Capitolina ed è già all’interno del futuro di questa città.

Maria Teresa Rossi
Maria Teresa Rossi
Osservo, scrivo, racconto. Per la Fondazione Osservatorio Roma e per Osservatorio Roma il Giornale degli Italiani all'estero..

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