La storia dell’emigrazione italiana si arricchisce di un nuovo, interessante capitolo con l’approfondimento del contributo apportato dagli artisti italiani alla costruzione del cinema americano. Il merito è del Festival delle Spartenze che ha organizzato una giornata di studio alla Casa del Cinema di Roma sull’influenza determinante del cinema italiano su quello americano, dagli esordi del cinema muto alla produzione successiva, tema finora non sufficientemente indagato dalla storiografia delle migrazioni. Il convegno ha avuto come protagonisti personalità della cultura italoamericana, studiosi del cinema e dei linguaggi cinematografici, Anthony Tamburri direttore del Calandra Institute di New York, Luciana Muscio, storica del cinema, Fabio Rossi, linguista dell’Università di Messina, Marianna Gallo direttore esecutivo Italian American Museum of Los Angeles oltre a rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali. La ricostruzione del contributo italiano al cinema americano, dal film muto alla produzione contemporanea, arricchisce e definisce una narrazione che per decenni è stata identificata con pregiudizi e stereotipi. Il cinema americano che fino al 1920 si girava a New York, città ad alta concentrazione di emigrati italiani, è diventato grande anche grazie all’apporto dei cantattori, gli eredi culturali della Commedia dell’Arte italiana, dei registi, delle maestranze, dei musicisti che arrivavano a New York con talenti e competenze, conoscenze e cultura che servivano all’America.
Fondazione Osservatorio Roma e America Oggi incontrano il prof. Giuseppe Sommario, direttore artistico del Festival delle Spartenze, che da molti anni conduce ricerche e studi sul fenomeno migratorio presso le comunità italiane all’estero per l’Università Cattolica.
Il Festival delle Spartenze come si racconta?
Il Festival delle Spartenze è una manifestazione e un progetto culturale, scientifico e sociale dell’Associazione “AsSud”, nato sei anni, frutto delle mie attività di ricerca sugli italiani nel mondo che da dieci anni eseguo per l’Università Cattolica di Milano. La storia migrante del nostro Paese ha visto partire oltre 30 milioni di italiani in 150 anni, una dozzina dei quali sono rientrati in Italia ma che nel complesso rappresentano una perdita secca di 20milioni di italiani. I numeri degli italodiscendenti nel mondo oggi sono impressionanti, si stima siano tra gli 80 e i 100milioni, concentrati soprattutto in Argentina, Brasile e Stati Uniti. Ciò che emerge dalle mie attività di ricerca presso le comunità italiane all’estero è la forza con cui gli italiani e anche gli italodiscendenti conservano il legame con l’Italia e la nostalgia “di un tempo presente” che appartiene anche a chi non ha mai visitato l’Italia e che è coltivata come sentimento alimentato dal racconto di genitori e nonni. Io sono nato in un piccolo paese della Calabria, ho vissuto in Germania e conosciuto l’emigrazione di tante persone vicino a me ed è proprio la mia storia personale che mi ha reso consapevole di come in Italia si racconta poco la storia dei nostri italiani all’estero, per una forma di rimozione che appare delittuosa e incomprensibile, perché come fa un Paese come l’Italia che ha una emigrazione lunga e pervasiva, a non raccontare, a non avere un’attenzione mediatica e pubblica alla storia e alle storie dei tanti italiani che hanno contribuito a ricostruire questo Paese? Nasce da questo interrogativo il Festival delle Spartenze.
Il Festival delle Spartenze è una risposta a chi e a cosa?
Il Festival nasce dalla considerazione che è necessaria una narrazione ampia del fenomeno migratorio, che vada oltre i libri pubblicati o i convegni organizzati sul tema, che sono utili ma non sufficienti. Tutti in Italia abbiamo o conosciamo storie di emigrazione, antiche e contemporanee, perché ogni anno oltre 100mila italiani lasciano l’Italia ed emigrano all’estero. L’emigrazione è un tema che appartiene a tutti.
Qual è l’etimologia della parola spartenza?
Il termine è polisemico, ha più significati, perché ha in sé la parola partenza, che è l’atto primo dell’emigrato ma ne comprende anche altri. Spartiere, nella cultura popolare, significa anche separare che è la conseguenza immediata e dolorosa tra chi parte e chi resta, ma spartire ha un significato ancora più profondo che si individua in molti dialetti, perché significa condividere. Spartire significa dividere, separare per poi riunire a un livello più profondo. Il Festival delle Spartenze nasce da questo sentimento e si pone l’obiettivo di mettere insieme e condividere, storie e territori.
Spartenza esisteva già nel vocabolario o è un neologismo?
Credevo fosse un neologismo ma in realtà è un termine che appartiene alla tradizione orale dei canti e della poetica calabrese e siciliana. La Spartenza è anche il titolo di un libro di Tommaso Bordonaro. Ho proposto questo nome per il Festival non conoscendo la parola né il libro, ma spartenze ha davvero una grande forza e un significato preciso.
La spartenza evoca un concetto che appartiene alla tradizione storica, sociologica e antropologica del nostro Paese, soprattutto di alcuni territori?
La spartenza, nel linguaggio popolare indicava la partenza, ma il Festival ha per primo dato il significato preciso di condividere. Ed è per questo che insieme agli italiani nel mondo spartiremo il racconto di una storia importante.
Raccontare la storia dell’emigrazione cosa significa?
Raccontare la nostra storia migrante è una prospettiva per raccontare l’Italia.
Il Festival delle Spartenze ha dedicato una giornata di studio al contributo degli italiani nella costruzione del cinema americano. E’ una realtà che si conosce e si racconta come si dovrebbe?
Non c’è ancora la giusta consapevolezza dell’importanza che gli artisti italiani hanno avuto nella costruzione del cinema americano. Il Festival ha scelto di raccontare cosa hanno fatto gli italiani per il cinema americano perché ciò rappresenta una sineddoche, una metafora che fa capire quanto importante è stato nel suo complesso il contributo degli italiani nella costruzione dell’America. Il cinema americano, che nell’immaginario collettivo rappresenta l’emblema del cinema mondiale, si è servito moltissimo degli italiani, fin dagli esordi del cinema muto. Uno dei grandi protagonisti, al quale abbiamo dedicato un focus alla Casa del Cinema con Giuliana Muscio, storica del cinema e studiosa del cinema americano, è stato Robert Vignola che è partito dalla provincia di Potenza ed è diventato uno dei registi più importanti del cinema muto, la cui storia è stata dimenticata da una sorta di rimozione che è scattata a un certo punto sugli italiani, attori, registi, maestranze, che hanno costruito il cinema americano.
Storicamente come si spiega questa rimozione?
Con l’atteggiamento dicotomico e ambivalente degli americani che amavano l’Italia ma non gli italiani. L’emigrazione italiana, soprattutto nei primi decenni del ‘900, è stata accolta con pregiudizi e odio razziale. Nel momento in cui, negli anni Venti, Enrico Caruso era la star più affermata d’America e Rodolfo Valentino, nato in Puglia, era il divo più importante, Sacco e Vanzetti finivano sulla sedia elettrica solo perché italiani. L’odio e il pregiudizio è stato feroce contro gli italiani e il cinema ha avuto un ruolo decisivo nel creare, alimentare e imporre molti pregiudizi.
L’italianità come veniva considerata?
Sull’italianità e gli italiani in America si è costruito un genere, il gangster movie che nasce nel 1906 con il primo film sugli italiani in America il cui titolo, “La mano nera” racconta già tutto e di cui negli anni successivi “Il padrino” sarà l’esempio più eclatante. L’associazione italiano uguale mafia, è una sineddoche che ha fatto presa in tutto il mondo. Le etichette costruite sugli italiani li descrivevano violenti, passionali, pronti al coltello o nella migliore delle ipotesi, sdolcinati e sensibili con un’accezione negativa, quasi offensiva perché contrastante con l’idea di machismo in voga in America.
Il cinema americano ha utilizzato ampiamente il cinema italiano. Come e per quali aspetti?
Il cinema americano aveva tutto l’interesse a utilizzarlo perché il cinema nasce in Europa e all’inizio del ‘900 il cinema più importante era quello francese e italiano. Quando il cinema arriva in America ha bisogno di affermarsi e non avendo tradizione, si rivolge a chi questa tradizione ce l’ha da sempre, cioè all’Italia, perché il cinema italiano nasce dalla antica tradizione della Commedia dell’Arte. E’ per questo che l’America accoglie attori, registi, caratteristi, musicisti, maestranze. L’Italia sa fare il cinema e anche nei momenti più bui, quando vengono chiuse le frontiere, gli artisti italiani avevano accesso libero, entravano in America, spesso sbarcando a Ellis Island, senza bisogno di visto. Oggi che si comincia a scrivere in maniera precisa e circostanziata la storia degli artisti italiani in America, si verifica che di molti italiani si sono perse le tracce proprio perché non inseriti nei registri ufficiali, in quanto sprovvisti di visto d’ingresso negli USA.
Si conosce il numero degli artisti italiani che sono andati in America a fare il cinema?
Non con precisione, si sa che sono migliaia e tra questi si conoscono solo le storie più clamorose e note come quella di Frank Capra, nato in Sicilia, Dean Martin, Frank Sinatra, Enrico Caruso, tutti figli della tradizione italiana.
Perché vengono definiti cantattori?
Perché sono figli della Commedia dell’Arte italiana, la prima forma teatrale in cui l’attore cantava e suonava, esattamente come ieri faceva Dean Martin e come oggi fa Madonna.
L’italianità ha inciso profondamente nel cinema, teatro e nella musica americana, eppure non è una storia così nota
L’influenza degli italiani nella costruzione del cinema e della cultura americana è ancora poco raccontata. L’italianità e gli elementi che riconducono all’essere italiano continuano in alcuni casi ancora oggi a essere stereotipati. Nei primi film l’italiano era sempre rappresentato con un coltello, la coppola e il fiaschetto di vino, circondato da arredi sacri. La tradizione enogastronomica e la famiglia sono sempre stati valori importanti per gli italiani ma venivano associati alla macchietta. Solo dagli anni Sessanta l’integrazione comincia a essere raccontata anche se non ancora completamente. La serie televisiva dei SOPRANO parla ancora oggi in modo ironico degli italiani, rappresentati come mafiosi e passionali, con un residuo di stereotipo che persiste.
Cosa testimonia in modo inequivocabile l’apporto italiano al cinema americano?
Indubbiamente il rilancio del cinema americano a Hollywood negli anni Sessanta, reso possibile dalla schiera di cineasti e attori italiani. Scorsese, Coppola, De Palma, Cimino e a seguire negli anni De Niro, Al Pacino rilanciano il cinema americano perché impongono alcuni elementi italiani che diventano elementi attrattori e conquistano il pubblico che in essi si riconosce.
Il film “Il Padrino” cosa ha significato?
Il Padrino racconta una storia di criminali in cui lo spettatore americano non si può riconoscere, ma i tratti italiani che lo caratterizzano, come la famiglia e la tradizione, rendono don Vito Corleone un personaggio in cui alcuni si possono identificare. Il regista Francis Ford Coppola fa giustizia, con questo film, dei pregiudizi di cui gli italiani erano stati vittima negli anni precedenti e l’essere italiano diventa pian piano motivo di orgoglio. Il Padrino è uscito nel 1972 e quello è l’anno in cui la storia comincia a riconciliarsi con gli italiani in America, è una data spartiacque.
Oggi nella cinematografia americana c’è spazio per un modo italiano di fare cinema?
Decisamente sì. Anthony Tamburri, Dean del John D. Calandra Italian American Institute, intervenuto al convegno in collegamento video, ha ricordato come gli italiani hanno una tradizione culturale e una formazione dalla quale non si può prescindere anche nel cinema più recente, dove ci sono attori e registi che si impongono nel panorama cinematografico americano anche se, ma è fisiologico che sia così, gli elementi italiani non sono evidenti come nel passato. Gli elementi di italianità sono più dissimulati e nascosti, ma ci sono. I video di Madonna, il modo in cui vengono raccontate in alcuni film la gestione di rapporti familiari e alcune famiglie, la tradizione enogastronomica che per l’Italia non è solo cibo ma storia e cultura, rimandano a un modo italiano di fare cinema.
L’accoglienza riservata ai Maneskin, la band rock italiana agli American Music Award con un piatto di spaghetti alle polpette e un fiasco di vino, che storia racconta?
E’ il segno che permane un certo stereotipo dell’italiano, anche se l’identità italiana può oggi essere esibita con un certo vanto e italoamericano si può finalmente scrivere tutto attaccato, senza trattino. L’Italia è tante cose, gli americani oggi lo sanno, apprezzano da Dante al cibo, al Made in Italy, a tutto quello che rende orgogliosi di essere italiani soprattutto gli italiani nel mondo.
Enrico Caruso al centro del Festival delle Spartenze nella tappa romana alla Casa del Cinema. Cosa ha rappresentato Caruso in America?
Enrico Caruso è stato il più grande cantante del mondo, non a caso il documentario a lui dedicato, patrocinato dal Min istero per gli Affari Esteri Direzione per gli Italiani all’estero, e proiettato al Festival ha un titolo che lo racconta “The greatest singer in the world”. Caruso è arrivato al Metropolitan di New York nel 1903 ed è rimasto sotto contratto per 17 anni, facendolo diventare il tempio della lirica, costruendo e aggregando attorno al Teatro una vivace comunità culturale italiana che era l’orgoglio degli italoamericani. Caruso ha imposto un modo innovativo e verista di interpretare l’opera lirica, diventando in America la prima star mediatica.
Enrico Caruso è stato un costruttore di cultura e non solo musicale. Perché?
Caruso ha avuto il grande merito di riuscire a conciliare cultura alta e cultura bassa, il bel canto della lirica con la canzone popolare napoletana che dopo Caruso è diventata l’emblema del bel canto italiano. La canzone che rappresenta l’Italia nel mondo è “O sole mio” nell’interpretazione di Caruso, il cantattore che eredita la tradizione della Commedia dell’Arte italiana e ne fa strumento per favorire la fruibilità della cultura, facendola arrivare a tutti.
Enrico Caruso ha molti meriti oltre a quello di aver fatto cantare in italiano il mondo. Il più grande?
Si, ha indubbiamente molti meriti perché è stato il primo a incidere sul vinile e a vendere dischi, il primo a vendere un milione di dischi. La sua voce incisa sul disco gli ha permesso di essere conosciuto da tutti, da una platea sterminata. Nel centenario della sua morte va riconosciuto a Enrico Caruso il merito forse più grande che è stato quello di aver amato l’America che lo ha accolto, restando sempre profondamente italiano.